Cincischio ancora per poco, i bilanci di fine anno si avvicinano: cosa ho fatto bene, cosa ho fatto male e cosa ho fatto gné. Sono pronta a compilare liste, ma ancora non mi ci metto, mi godo questo mese di attesa misto speranza prima delle feste natalizie.
Novembre è così, una parentesi. Tra un autunno che sembra più una primavera vintage e un altro inverno senza neve sulle cime. O forse no.
Tornando alle liste, ne avrò più di una da fare: la lista dei regali, quella delle uscite (di denaro e con gli amici), quella dei prossimi obiettivi, delle cose da migliorare, dei posti da vedere, delle esperienze ancora da fare.
Da anni mi mancano il go-kart e il paintball, le mie liste dei buoni propositi iniziano sempre con queste due attività.
Il prossimo anno sarà quello buono, lo dico anche sto giro.
Le liste mi confortano, mi inorgogliscono ti dirò, nonostante la consapevolezza di non riuscire a depennare tutte le voci. Qualcosa resterà indietro, per forza, perché la vita scombina i piani.
Ma elencare tutte le cose che voglio ancora fare e tutte quelle che ho già fatto, nel bene e nel male, mi fa sentire una persona valida, che può ancora migliorare.
Poi comincia: - Cosa facciamo?
È una solfa di certi giorni, nasce quieta e si infittisce, Cosa facciamo? Cosa facciamo? È una delle domande che nasconde la coscienza della fine.
- Cosa facciamo, Sandrin?
Gli accarezzo le mani. -Cosa vuoi fare?
-Boia me,- sfiata tra i denti.
L’imprecazione che sentivo da bambino, se i conti non tornavano o quando si accaniva su una radice da mozzare in giardino.
Fragilità.
Nella prima pagina del mio Avere tutto, quella bianca dove di solito ci scrivo le dediche, ho segnato a matita queste parole:
padre e figlio, uomini, Nando, la fragilità.
Per ogni libro che leggo appunto frasi o parole o mie sensazioni ispirate dalla storia, nella prima pagina. Così quando mi capita di riaprirlo, quelle se ne escono subito e mi arrivano dritte al naso, alle ciglia, alla punta del cuore. Lo riconosco, mi riconosco.
Il romanzo racconta di Nando e di suo figlio, di Sandro e di suo padre, di due uomini e di tanti altri, dei loro silenzi al tavolo da gioco della vita, del passo di ballo sbagliato, dei dischi in vinile e di una donna soltanto, del rischio tutto per avere tutto. O per lasciare tutto, sul più bello. Il romanzo racconta di fragilità, fragilità antiche come il mondo.
Non è il primo libro che ho letto di Marco Missiroli, ma è quello che fino ad ora ho preferito. Ci vuole del tempo per entrare nella sua scrittura: all’inizio sembra quasi spocchiosetto, non capisci bene dove vuole arrivare. Poi arriva, in piena faccia di solito. Con un passaggio, uno scorcio, apre ferite che combaciano con le tue. E alla fine le cura.
Avere tutto ha riappacificato la visione che per tanto tempo ho avuto di mio padre: un uomo indurito dal senso del dovere e dalle mancanze, ma di pasta tenera che ancora mostra, timidamente, nei sorrisi e nei baci sulla fronte. I suoi no, ora, hanno un altro significato per me, dopo questo libro e dopo Nando.
- Il bene che gli vuoi, a un padre cos’altro puoi dire.
- Volevo dirgli che un po’ di lui ce l’ho, un po’ di quello che mi ha dato.
- Ma lo sapeva.
- Non so se lo sapeva.
- Massì che lo sapeva.
- Sapeva che ero diverso.
- Come tutti i figli.
Sorrido.
- Diverso sdozzo. La mela caduta lontano dal melo.
La fobia sociale di essere out.
Esiste e si chiama FOMO: Fear Of Missing Out. La paura di rimanere indietro, di perderci “cose”, di essere out appunto, fuori dal giro, fuori dalla compagnia, fuori dal podio.
Ne sentivo parlare da un po’ e sempre più spesso di recente, leggevo distrattamente post e commenti su questa nuova tendenza patologica pensando non mi riguardasse, come la maggior parte degli acronimi -che appena imparo dimentico, ma perché esistono?
Poi c’ho ripensato, a quella paura di rimanere indietro. Così ho letto alcuni articoli con attenzione e sguardo critico, mi sono confrontata con alcune persone al lavoro e c’ho ragionato un po’ su.
E non è mica una cazzata.
Ho concluso questo e che, anzi, io ci sono dentro con tutto il mio 35 barra 36 di scarpe. Mi capita soprattutto nel lavoro: ho paura di rimanere indietro, così tanta che il tempo che perdo ad avere paura mi fa rimanere indietro. È un loop, falso e ipocrita.
Sapere tutto, gestire tutto, avere tutto sotto controllo, non mancare un’opportunità di lavoro, non perdere un’occasione per farmi conoscere, per non rimanere indietro.
Questo è un risvolto dell’essere freelance che se non si impara a domare non si rivela proprio proprio positivo. Certo, colmare le proprie ignoranze è un’intenzione nobile, un gesto migliorativo e d’esempio. Ma quando diventa una fobia, un’ansia, e un’ansia sociale per di più, significa che ci, mi, sta sfuggendo qualcosa di mano. O di mente.
E quel qualcosa sono io, siamo noi.
Datti pace.
L’ho detto ad alcune mie compagne di corso in palestra. Alla fine della lezione stavamo argomentando a vicenda la vanità dei nostri sforzi fisici, superati i quaranta. “Che fatica questa sera, non ho mica più vent’anni” fa una, “E anche oggi ho fatto il mio, posso andare a letto serena” fa quell’altra. Poi arrivo io “Ho rischiato l’infarto anche sta volta, ma appena mi sale il battito mi dico: datti pace Chiara” e con una nonchalance poi, come fossi Jane Fonda da Mestre. Ridicola che sono.
Devo darmi pace, ogni tanto. Non posso avere tutto, sapere tutto, essere dappertutto. Però, a guardare chi intorno a me corre e si adopera e riesce e scala la piramide sociale e professionale mentre io sto ancora leggendo il primo capitolo o imparando come si usa TikTok (no, mi rifiuto), è facile che mi salga un po’ di sconforto. E la sfiducia in me stessa e l’incertezza sulle mie capacità e sul mio futuro lavorativo.
Lo so, da una briciola ne faccio una baguette, hai ragione.
Allora comincio dal memorizzare gli acronimi, tipo FOMO: dovrò pur diventare cintura nera in qualcosa, o no?
Intervista il tuo mentore (o la tua mentore).
Immagina di poter intervistare la persona o il personaggio che ammiri e che ti ispira per la sua profonda saggezza.
Hai un cruccio, poniamo sta FOMO, e vuoi assolutamente sapere cosa ne pensa lui/lei. Sì, questo è un esercizio di scrittura: tu sei il/la giornalista al cospetto del tuo mentore (o della tua mentore).
Io mi ritroverei subito nel salotto di Jessica Fletcher (e parte la sigla): sedie di legno scuro, carta da parati a fiori, servizio da tè in porcellana con le rifiniture dorate. Torta di mele appena sfornata, tovaglia all’uncinetto fatta a mano. In sottofondo il rumore lontano delle onde.
Zia Jess, il fatto è che ho come la sensazione che tutto il mondo stia andando avanti per la sua strada e io rimango sempre l’ultima della fila, la pecora nera che s’è persa nella parata delle celebrità. Mi sento pesante e vecchia, e più cerco di darmi da fare e più arranco.
Cosa devo fare?!
Oh cara, per prima cosa devi smetterla di essere così severa con te stessa: di giudici -e di peccatori- ne esistono fin troppi a questo mondo! Perché non scegli un libro con cui stare, immergiti in una storia, dedicati alle tue passioni, hai molti talenti e lo sai. Con questa bella giornata di sole anche un giro in bici verso il mare fa miracoli! Andiamo insieme al mercato del porto, scegliamo dei fiori freschi da mettere sul tavolo della cucina e poi prepariamo una buona cenetta: aragoste in brodo e biscotti al cioccolato! Sono i preferiti del dottor Hazlitt, invitiamolo!
Ti andrebbe di darmi una mano, cara?
Jessica Fletcher mi direbbe più o meno questo, ne sono certa: mi ritroverei a pedalare sorridente per le strade di Cabot Cove senza più pensieri.
Crea il tuo posto,
ma non uno qualsiasi e non un posto di lavoro o nel mondo, per citare Fabio Volo.
Crea il tuo posto del benessere, un luogo o anche una situazione dove stare, per un po’, dove trovare e avere tutto. Tutto quello che ti serve per tirar fiato e stare bene.
Come il salotto di zia Jess o la casa sull’albero nel giardino di casa, la cameretta di un tempo, la tua amica del cuore del liceo, la colazione al bar di martedì, una domenica al cimitero.
Un luogo o una situazione dove trovare e avere tutto. Che poi quel tutto saresti “solo” tu, sarei “solo” io. Di nuovo.
Ci bastiamo per stare bene, in fondo.
E se non credi a me, credi a lei che di verità ne sa qualcosa…
Dopo cena andiamo a casa sua e scopiamo e lei sente che sono cattivo e mi lascia fare. Alla fine mi prende le tempie tra i palmi e le tiene finché non spurgo il pianto.
Un’ultima cosetta…
Hai delle curiosità sulla scrittura che vuoi chiedermi o qualcosa che invece sai e vuoi condividere? Dei consigli di lettura o degli esercizi di scrittura che ti ho proposto e che ti hanno aiutato?
Oppure no, ti andrebbe solo una chiacchierata per capire se possiamo collaborare insieme.
Sarei davvero felice di conoscerti e di ascoltarti. Per questo, per poterti conoscere e ascoltare, ti propongo 30’ di video-call: puoi prenotarla qui sotto, se ti va (spero di sì).
GRAZIE GRAZIE GRAZIE!
Vuoi leggere qualcosa che ti faccia sorridere?
Nel mio Mon-Key Blog scrivo di cose inutili che non interessano a nessuno. Perché c’è sempre un po’ di “nessuno” in ognuno di noi!